Storia delegazione Viterbo - Rieti
Nella storia millenaria e gloriosa del Sovrano Militare Ordine di S. Giovanni di Gerusalemme detto di Rodi detto di Malta, il periodo che va dalla partenza dall’isola di Rodi (2 gennaio 1523) all’insediamento nell’isola di Malta (26 ottobre 1530) rappresenta senz’altro un momento triste ed intensamente sofferto della nobilissima Istituzione Gerosolimitana, sempre così esaltante, edificante e concreta nel raggiungimento dei propri fini istituzionali. Momento delicato e doloroso della vita dell’Ordine non già per il venir meno o l’affievolirsi dei caratteri peculiari dello stesso (che, anzi, ne usciranno notevolmente rafforzati proprio dalla volontà comune di superare le enormi difficoltà incontrate) quanto per la particolare situazione emergente da una errante e, per ciò, affannosa e sofferta ricerca di una nuova, dignitosa collocazione geografica, tale - cioè - da mantenere inalterato il carattere essenziale di Sovranità dell’Ordine, intesa anche in senso territoriale; in tale contesto si inserisce quindi, il periodo viterbese (25.1.1524 - 15.6.1527).
Il 24 gennaio 1524 Villiers de l’Isle Adam richiese infatti al Papa, a titolo provvisorio e precario, la città di Viterbo, come «la più spaziosa e propizia» e «la quale per i tempi che correvano pareva molto comoda», rappresentando — al tempo stesso — l’urgenza di indire un Capitolo Generale per conferire un certo assetto all’organizzazione dell’Ordine, in attesa, comunque, di ottenere una stabile e definitiva residenza marittima. Viterbo, ove peraltro l’Ordine aveva già da tempo propri possedimenti e Commende, era nome non nuovo nella storia melitense in quanto un primo ed antichissimo legame tra la città dei Papi e l’Istituzione Giovannita può scorgersi fin dagli inizi di vita dell’Ordine stesso allorché un Pontefice viterbese, Papa Pasquale Il (nato a Blera nella seconda metà del sec. XI) aveva emanato la famosa Bolla «Piae postulatio» diretta al Beato Gerardo nel 1113, con la quale riconosceva l’Ordine degli Ospedalieri di S. Giovanni di Gerusalemme. Il motivo, tuttavia, della specifica richiesta di Viterbo come sede - anche se temporanea - dell’Ordine è da ricercare essenzialmente nel fatto che tale città era a quel tempo metropoli del Patrimonio di S. Pietro e residenza del Prelato che presiedeva al governo dell’intera Provincia.
La richiesta fu subito accolta dal Papa e la sede di Viterbo «gli fu da questi benignamente accordata per residenza provvisionale di tutta la di lui Sacra Religione per fino a quel tempo, che dall’Imperador Carlo V, con cui trattavasi l’affare, avesse potuto ottenere per la di lei stabile permanenza altro comodo, sicuro e dispotico Stato». Fu, quindi, assegnata da Clemente VII la Rocca di Viterbo per abitazione del Gran Maestro e per sede del Convento «con ampla autorità di poter esercitare sopra de’ suoi ogni qualunque atto di giurisdizione, conferendogli di vantaggio il grado di Capitano delle Armi, e di Governatore di essa Città, e conferendogli tutti gli antichi suoi privilegi»; così il Bussi anche se, in parziale contrasto con quanto affermato da quest’ultimo e dallo stesso Bosio, il Governo della città sembra sia stato esercitato tra il 1524 ed il 1526 da Cornelio Bigli, di Gubbio. È indubitato, però, che il Pontefice volle che il Gran Maestro di Rodi fosse di detta città il Capitano «acciò fosse da tutti i viterbesi obedito».
Il primo pensiero del Gran Maestro, appena giunto a Viterbo, fu di far provvedere acché tutti fossero comodamente alloggiati - compresi gli Alberghi delle varie Lingue, l’Infermeria ed i Rodioti - nei palazzi di città; è notazione di pura curiosità a questo proposito evidenziare che durante la permanenza dell’Ordine in Viterbo il Consiglio di città (magistratura composta dì appartenenti a sole famiglie Nobili per l’elezione alla carica dei quattro Priori) abbia prescritto una rata mensile pari a scudi 2 e tarì 6 per ogni tavola degli Albergisti. Immediatamente dopo, Villiers de l’Isle Adam si preoccupò di poter disporre di una Chiesa per le funzioni religiose ed accettò - in quanto non lontana dalla Rocca - la Chiesa Collegiata dei SS. Martiri Faustino e Giovita «benignamente accordata dal Capitolo e dai Canonici» i quali si spostarono temporaneamente nell’altra loro Collegiata di S. Luca che, confinando con S. Faustino, era detta dei SS. Luca e Faustino.
Dato un primo provvisorio assetto - compatibilmente con le circostanze contingenti alla situazione logistica, il Gran Maestro prese la determinazione - d’accordo con il Consiglio - di indire un Capitolo Generale a Viterbo per esaminare e dibattere le questioni più serie ed importanti riguardanti la vita stessa dell’Ordine.
Risale a questo periodo il disaccordo sorto in Viterbo tra i Cavalieri delle varie Lingue per l’affidamento dell’incarico di Capitano delle galere; ciò che aveva provocato una completa inattività della flotta e, di riflesso, una crescente arroganza delle navi corsare che erano giunte ad infestare le coste italiane e a catturare, con particolare audacia, gli stessi navigli risalenti il Tevere con carichi di vettovaglie. Fortunatamente la questione fu risolta in breve tempo e come effetto immediato si ebbe la cattura presso l’isola di Giannutri di due galeotte turche e di oltre 200 infedeli, nonché la liberazione di circa 200 cristiani tenuti in schiavitù; le bandiere conquistate al nemico furono inviate come trofeo dall’Ammiraglio d’Airasca a Viterbo ed esposte nella chiesa di S. Faustino.
Le intensissime relazioni diplomatiche intraprese con le potenze cristiane dell’epoca per la ricerca di una soluzione al primario problema di una nuova sede, avevano portato alla offerta da parte dell’Imperatore Carlo V delle isole di Malta, Gozo e Comino e della città di Tripoli ove fu inviata una missione esplorativa.
Fatto ritorno a Viterbo gli otto Cavalieri incaricati questi fecero in un primo tempo una esposizione verbale e poi stilarono una dettagliata e critica relazione che si concludeva - a parte talune riserve - con un giudizio favorevole all’accettazione delle sole isole, esprimendo parere negativo per la piazzaforte di Tripoli, ritenendo che non potesse assicurarsene l’idonea difesa.
Si stabilì quindi di devolvere ogni decisione al Capitolo Generale che avrebbe visto confluire a Viterbo i Cavalieri Gerosolimitani da ogni parte della Cristianità. Il Capitolo, già più volte rimandato anche per il sopravvenire del morbo pestilenziale dovette esserlo nuovamente poiché si accingeva a sopraggiungere l’esercito al comando del Connestabile di Borbone, diretto su Roma. Gli imperiali, come è storicamente noto, tumultuavano e saccheggiavano indiscriminatamente, avidi di ricchezza e di bottino sicché i viterbesi, demoralizzati da discordie interne e da prolungate pestilenze - tranne una breve interruzione invernale del morbo - vivevano nel terrore che la loro città potesse essere distrutta da un momento all’altro. Si contava, più che altro, per fronteggiare l’agguerrito esercito cesareo, sul valore degli eroici difensori di Rodi ai quali lo stesso Clemente VII aveva rivolto un caldo e pressante appello, tramite l’invio a Viterbo del Vescovo Eletto di Motula, per una strenua difesa della città. All’approssimarsi del nemico buona parte della popolazione cercò in un primo tempo scampo nella fuga; solo i prodi Cavalieri Gerosolimitani rimasero impavidi nella Rocca, rinforzati dai soldati delle galee richiamati da Civitavecchia, ad attendere gli avvenimenti non senza che il Gran Maestro avesse fatto sapere al Borbone, per mezzo di tre suoi ambasciatori, sia che Viterbo non avrebbe dovuto subire alcun oltraggio per essere, al momento, città di residenza della Religione Gerosolimitana non facente parte della lega contro l’Impero sia che, in caso di attacco, i Cavalieri tutti avrebbero «posto il sangue e la vita per la difesa e conservazione di tale Città».
Il Borbone rassicurò - da parte sua - che la Religione non avrebbe subìto alcun danno come pure la città di Viterbo ed il suo territorio; ciò nonostante de l’Isle Adam fece prendere le opportune precauzioni di difesa, provvide acché tutte le Sacre Reliquie dell’Ordine fossero portate dalla Chiesa di S. Faustino alla Rocca - senz’altro più sicura da eventuali azioni di attacco - e dette disposizioni ben precise per la difesa di Viterbo tanto da far sentire gli stessi cittadini al sicuro e da indurre i pavidi, che si erano dispersi per le campagne, a rientrare in città con chiunque altro avesse voluto cercarvi asilo.
Anche in un frangente così delicato per la sicurezza di tutti, il Gran Maestro usò abilmente la sua solita e provvidenziale prudenza riuscendo a far recedere gli avversari da propositi di violenza e facendo salutare molto cavallerescamente dal suono delle trombe e da salve di artiglieria lo stendardo imperiale al suo apparire mentre - ovviamente - all’interno della città i Cavalieri ed i soldati si trovavano all’erta.
Non mancò, tuttavia, una vittima proprio nella persona dell’Arcivescovo Clemente, Metropolitano di Rodi, che affacciatosi imprudentemente ad una finestra della Rocca per assistere al passaggio dell’esercito imperiale fu colpito all’improvviso da un’archibugiata. Durante il suddetto passaggio fu chiesto al Comune di Viterbo di fornire i viveri occorrenti alle truppe, garante il Colonna; pur in questa circostanza de l’Isle Adam contribuì alle necessità facendo distribuire vino e vettovaglie.
Il Capitolo Generale, pertanto poté aprirsi solo successivamente, con il consenso del Sommo Pontefice che aveva già nominato suo rappresentante il Card. Egidio Canisi, Legato Pontificio. Pertanto, il giorno 18 maggio, dopo aver assistito alla solenne Messa dello Spirito Santo nella Collegiata di S. Faustino, il Gran Maestro con tutti i Cavalieri, i Balivi, i precettori ed i cappellani, al canto degli inni sacri, si recò processionalmente verso la Rocca per dare inizio, finalmente, al Capitolo Generale la cui celebrazione aveva subìto numerosi rinvii. La Grande Sala era stata sontuosamente addobbata per così importante circostanza e vi erano stati sistemati due troni, uno in velluto cremisi e con galloni in oro per il Cardinale Canisi l’altro in velluto nero con ricami in oro per il Gran Maestro dell’Ordine.
Come è noto, dopo altre trattative e per l’interessamento particolare di Clemente VII, l’Imperatore Carlo V, anche nella sua qualità di Re di Sicilia, acconsentì alla concessione di Malta e di Gozo all’Ordine - con l’impegno, tuttavia, da parte dei Cavalieri di presidiare anche la città di Tripoli - fermo l’obbligo di presentare annualmente, quale rendita nominale, il falcone e previo giuramento di non tollerare qualsiasi nocumento al regno come pure di non dare ospitalità a «regnicoli rei di delitto capitale, di lesa maestà e di eresia» (Decreto del 22 marzo 1530 confermato dal Papa il 25 aprile successivo - Reg. Vatic. 1440 f. 99).
Successivamente al 23 maggio, le sedute del Capitolo furono dedicate all’esame di altre questioni riguardanti la Religione mentre il giorno 7 giugno, dopo aver nuovamente pregato e reso grazie a Dio, il Cardinale Canisi ed il Gran Maestro dichiararono concluso il Capitolo Generale.
Nei giorni seguenti de l’Isle Adam - pressato anche da una situazione non più sostenibile per il dilagare della peste che aveva già causato non poche vittime tra gli stessi Cavalieri di Rodi - espose in Consiglio la necessità di lasciare Viterbo per non subire ulteriori perdite e il 15 giugno, unitamente al Convento ed al popolo di Rodi che lo aveva seguito, si diresse alla volta di Civitavecchia e di Corneto non senza aver prima inviato al Papa - ancora assediato in Castel S. Angelo - il Balì di Napoli Frà Battista Caraffa, incaricato di renderlo edotto delle determinazioni adottate nel trascorso Capitolo e della risoluzione presa di partire da Viterbo, lasciando al Cavaliere dell’Ordine Frà Bausan la custodia della Rocca, in attesa di disposizioni papali per la sua riconsegna. L’ordine di riconsegna della Rocca fu dato dal Papa con suo Breve del 21 giugno ma fu eseguito solo in data 21luglio 1527 nelle mani del Cardinale di S. Vito, Legato del Patrimonio.
Se pure il temporaneo insediamento del Gran Magistero e del Convento, nelle oltremodo delicate e decisive circostanze descritte, costituisca la più significativa espressione della presenza dell’Ordine a Viterbo, ben numerose e tutt’altro che trascurabili ne risultano le preesistenze storiche, essenzialmente riferibili a numerose commende stanziate sia in città che su tutto il territorio provinciale, anche in virtù della devoluzione all’Ordine di Malta dei beni del soppresso Ordine dei Cavalieri del Tempio; possono in merito riportarsi gli insediamenti maggiori tratti dal volume “La presenza del Sovrano Militare Ordine di Malta nella provincia di Viterbo” edito per iniziativa della Delegazione, cui si rinvia per ogni opportuno approfondimento:
- Commenda con annesso Ospedale di Santa Maria della Carbonara di Viterbo e Chiesa di Santa Maria in Foro Cassio di Vetralla;
- Commenda di San Magno di Gradoli;
- Commenda di Santa Maria in Risiere sulla strada di Marta;
- Commenda dei SS. Giovanni e Vittore con Ospedale intitolato a San Giovanni Battista;
- Commenda di Santa Maria di Centignano in Vignanello.
La Delegazione, dopo il primo breve periodo nel quale fu ospitata presso il Monastero di San Bernardino delle Clarisse francescane che custodiscono il Corpo e l’eredità spirituale di Santa Giacinta Marescotti che ne è la celeste Patrona, ha una propria sede istituzionale presso il patrizio Palazzo Santoro nella centrale Piazza Verdi (del Teatro); i riti conventuali vengono celebrati nella stessa Chiesa Collegiata, già Magistrale, dei SS. Faustino e Giovita ove officiava il Convento dell'Ordine durante la permanenza a Viterbo e che tutt'ora conserva numerose sepolture dei Cavaleri tornati al Padre in tale periodo.